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Le Città come aspetti dell’identità italiana: uno sguardo dalla Russia - Города как проявление итальянской идентичности: взгляд из России


Svetlana Knyazeva, доцент РГГУ

Le Città come aspetti dell’identità italiana: uno sguardo dalla Russia


Visto che l'oggetto delle nostre ricerche sono le città del Mediterraneo ed "...è giunta l'epoca storica delle città", ho a questo punto facoltà di ricordare Giorgio La Pira, già sindaco di Firenze, eletto nel 1967 presidente della Federazione Mondiale delle Città Unite e il suo slogan "Unire le città per unire le nazioni", e farlo in città di Sassari, comparsa nel lontano 1131 per la prima volta nelle carte geografiche col nome di Jordi de Sassaro e divenuta Libero Comune nel 1294, a seguito della promulgazione degli Statuti Sassaresi.
Sulla importanza dei problemi che discutiamo qua basta leggere al l’articolo sulla “Stampa” “Mediterraneo, le opportunità per l’Italia” di pochissimi giorni fa (La Stampa, 2016, 30 novembre).
Con l’approccio socio-culturale ai vari problemi dei relazioni internazionali possiamo ricostruire certi forme, figure, disegni, simboli e segni sensibili, modelli, schemi, Gestalt (nella teoria di Gestalt, i modelli dominanti rimasti nella memoria collettiva del paese a causa di una particolare esperienza storica) – l’insieme dei fattori emblematici per capirne l’identità. Per mezzo di questi schemi e simboli ci si esprime in un dato spazio socio-culturale e ci si rappresenta all’estero tenendo presente i limiti della sua sociabilità. I moduli, concetti, connotazioni e idee nascosti nel suo profondo, ma abbastanza concreti, vengono trasmessi attraverso un discorso appropriato e attegggiamenti adatti e convenienti e ci aiutano a capire perché certi aspetti evidenti degli atteggiamenti manifestati dagli abitanti (tranne le élites) di un dato paese al mondo esterno – vale a dire dall' "Io" collettivo – a un "Altro, diverso", a uno che "non è uno di noi”, “non appartiene al nostro mondo, alla nostra cultura", è "straniero", "estraneo" o addirittura “avversario” - vengono dimostrati e testimoniati con la tenacia sorprendente, gli altri aspetti rimangono dietro le quinte. In chiave imagologica sarebbe necessario concepire in che modo gli atteggiamenti di altri popoli relativi a un dato paese influenzano i comportamenti del suo popolo e del potere e la rappresentazione di questo paese nel mondo. Affrontando il problema di rappresentazioni reciproche nei rapporti internazionali vanno esaminati i fattori importanti quali modi istituzionali, la cultura politica nonché la matrice stessa del programma vitale dello Stato, della popolazione, il nucleo culturale, il profondo dell’identità.
Il nucleo culturale – accettiamo di usare questo termine come sinonimo dell'identità o la matrice del programma vitale – rappresenta un insieme multifattoriale di esperienze del popolo e si rispecchia in una certa scala di valori, fondazioni e principi essenziali, basati su nozioni, idee, percezioni abbastanza stabili create nei secoli e per secoli su cose di base quali che cosa vale in un dato spazio socio-culturale la persona umana, che cosa significano vita e morte, bene e male, vero e falso, libertà o servitù, violenza e abuso, tolleranza o intransigenza nonché usanze e abitudini, fondazioni, tradizioni, atteggiamenti diffusi relativi all'istruzione, lavoro, ambizioni, cognizione. Se la cultura politica è più o meno stabile perché è basata sul complesso di modelli e schemi, idee e nozioni, segni e immagini, sagome, Gestalt compatibili, si creano nella società la disponibilità, e “la volontà collettiva” è manifestata con un atto volitivo; vanno presi in considerazione anche l’aggressione molecolare e "l'ordine spontaneo" (o naturale) – i fenomeni che favoriscono la stabilità dello stato se vogliamo ricordare idee e termini dei famosi liberali europei del Settecento Adam Smith e François Quesnay oppure la teoria dell'egemonia di Antonio Gramsci.
In che modo le città possono influenzare la cultura politica, modi istituzionali, municipalità democratica e, qualora gettassimo uno sguardo ancora più attento, l'identità stessa del paese?
L'Italia, e soprattutto quella settentrionale e centrale, era sempre un paese delle città. Che cosa sono, che cosa significano le città nella storia e civiltà italiana? Sulle coste settentrionali e centrali italiane, nel cuore stesso del Mediterraneo sorsero le città marinare. Questo fenomeno interessò a suo tempo tutta l'Europa Occidentale e anche centrale e sicuramente tutta la zona del Mediterraneo. Si tratta soprattutto delle più note repubbliche marinare: Venezia La Serenissima, Genova La Superba, Pisa e Amalfi. Ricordiamo al proposito che la bandiera della Marina della Repubblica Italiana è ornata da quattro stemmi, il che vuole ricordare queste repubbliche. Lasciate in balia di sé stessi, le popolazioni delle città, soprattutto quelle rivierasche, dovettero per forza arrangiarsi, "fare da sé", organizzare la vita, costruire fortificazioni e vascelli. Queste iniziative ebbero successo grazie al benessere economico raggiunto dalle città le quali, trovandosi sul mare e aggiungiamo, sul mare dalle acque calde, avevano potuto arricchirsi con il commercio che poteva essere il "segreto" della loro sopravvivenza, potenza, prosperità. Ottenuta l'indipendenza economica e ridotto il pericolo delle scorrerie barbariche, molte città riuscirono a rendersi indipendenti dal punto di vista politico, sottraendosi all'autorità delle potenze quali il Sacro Impero Romano e il Bisanzio.
La Serenissima, infatti, per non cadere sotto il dominio degli Ostrogoti, dei Longobardi e quindi dell'impero carolingio, aveva preferito mettersi sotto la "protezione" dell'Impero Bizantino, e, dal momento che era lontano, rimase in pratica indipendente – e forte. Ad un certo punto i Veneziani elessero, riuniti in una specie del Parlamento, un capo che li governasse – un doge, un capo eletto e dotato di limitati poteri accanto al quale funzionava una specie di governo – il Maggior Consiglio.
Gli aristocratici veneziani dovevano la loro posizione privilegiata non al possesso di latifondi o alle imprese militari, ma alla loro attività commerciale, fra cui la vendita di un elemento indispensabile come il sale. I nobili veneziani erano "venuti su" grazie al lavoro: coloro che governavano Venezia, almeno una buona parte di loro, lo facevano in modo da favorire l'attività commerciale ed economica, l'unica che consentisse alla città di sopravvivere, facesse i loro interessi, portasse i cittadini a un certo livello del benessere. E la "molla" del commercio furono le navi: venivano costruite all'Arsenale che divenne una vera catena di montaggio.



Passando al Comune, tocchiamo questo fenomeno sia politico sia sociale ed economico che interessò la maggior parte delle città della Penisola, dove le condizioni storiche e sociali non permisero il formarsi di uno Stato unitario. Così fiorìrono i Comuni, i quali, tra il Trecento e il Quattrocento, diedero vita a numerose entità statuali minori; in seguito alcune di queste acquisirono la connotazione di veri e propri Stati regionali. Va ricordato che nel resto del continente europeo (tranne le libere città di Hansa) l'esistenza dell'Impero e poi delle monarchie nazionali sorte a cavallo dell'Alto Medioevo e l'età Moderna ostacolò il pieno sviluppo dei Comuni; non potettero sorgere neanche nel Meridione italiano.
Come le Repubbliche Marinare, così le città dell'interno, sorte sulle maggiori vie di comunicazione, furono investite dal risveglio economico: gli abitanti si "rimboccarono le maniche" e avvertirono l'esigenza di riunirsi per lavorare, per produrre merci di ogni genere e sempre di più, per imparare a fare il commercio – e così migliorare insieme la vita. Le famiglie abbienti si associarono in consorterie, si giuravano reciprocamente assistenza in caso di necessità; perfino i religiosi fondarono le confraternite per esercitare particolari opere di carità.
Che cosa è il vero "motore" dei Comuni? Il lavoro. Vanno indicate le arti o corporazioni costitute dai ceti che oggi potremmo definire la classe media – create per lavorare che riunivano coloro che svolgevano un'attività simile e praticavano il lavoro spesso nello stesso quartiere. (A Firenze, per esempio, si trova la via dei Saponari, dei Calzaioli ecc).
L'unione fa la forza. Lo spirito associativo incrementava l'attività della corporazione e difendeva i loro membri da tutti quanti che intralciavano il crescente benessere, e si opponevano ai feudatari ai quali le città erano sottomesse.
Sin dai tempi di Roma repubblicana, come ben sappiamo, gli abitanti dei borghi preferivano associarsi in assemblea per eleggere i magistrati. Questa abitudine riprese all'epoca dei Comuni, e i cittadini si riunirono in una specie del Parlamento o Arengo sia per approvare le leggi – gli Statuti, sia per eleggere i capi della città-Stato. Prima si trattava dei Giurati - gli eminenti cittadini che giuravano di dedicarsi alla prosperità del bene comune, più tardi i Consoli che venivano scelti tra i cittadini più rispettati. Secondo Giovanni Villani, i Consoli governavano le città e facevano giustizia, e durava il loro ufficio un anno. I meccanismi del governo comunale veniva completata da altri due organi: il Consiglio Maggiore, che curava gli affari generali dello Stato, e il Consiglio Minore.
Ma, allora, con i Comuni sono nate (o rinate) la libertà e la democrazia? Se la libertà poteva dirsi più o meno raggiunta, la democrazia, infatti, era ai quei tempi ai primi passi. Anche se esageriamo un po’ sopravalutando i tratti progressivi delle città, del Comune, del suo modo di progredire, ragionare, di trattare i problemi di lavoro, modo di governare e vivere, questo non cambia molto; tanto è che nella memoria collettiva del popolo della Penisola il Comune rimane per sempre un determinato modello di vivere, governare, di essere governati – e questo – lo dobbiamo sottolineare – è il patrimonio dei Comuni, l’insieme dei valori e quindi tradizioni conservati nei secoli che appartengono a questo spazio socio-culturale; è una delle basi profonde del nucleo culturale italiano, italianità stessa, della matrice dei modelli istituzionali, del modo di pensare e agire. Non è a caso che si parlava del "sapore” della libertà, cioè un primo avvio verso la democrazia nelle città è che "è la stessa aria delle città che rende liberi i cittadini". Un altro merito importante fu la rivalutazione del lavoro, di qualsiasi lavoro, comprese perfino le ”arti spregevoli”; il lavoro veniva riconosciuto come qualcosa di dignitoso che offriva la possibilità di realizzarsi, degno di rispetto poiché è necessario al progresso e prosperità della società. Le città divennero così nucleo della civiltà europea e culla della libertà, provocarono lo sviluppo della municipalità democratica: il funzionamento del Comune veniva regolato in modo autonomo dalla popolazione locale che eleggeva i propri rappresentanti con il compito di curare gli interessi della collettività comunale, e la sovranità apparteneva a loro. Vale la pena di ricordare la Costituzione della Repubblica italiana.
Va peraltro ricordato il periodo prolungato del separatismo politico nonché la presenza dell'Austria e della Spagna in Italia; nel Novecento accadde anche il Ventennio Nero. Tutto ciò deve essere preso in considerazione come fattori traumatici – qualora avessimo bisogno di rivelare il ruolo del trauma nel passato e presente di qualsiasi paese. È la storia del trauma nella civiltà del paese.
Nella tradizione politica e socio-culturale italiana è un luogo comune ricordare anche il ruolo della Francia nella genesi dell’Italia moderna giacché la Francia a cavallo del Settecento e Ottocento portava all'Europa la nuova cultura politica – la cultura liberale di feuillants nonché quella del radicalismo politico. Durante il predominio d’Oltralpe in Italia, la sociabilità rivoluzionaria si tradusse in uno spazio politico, fondato sull’esercizio di carte costituzionali esemplate su quella francese del 1795, che sancivano le libertà del cittadino, ne promuovevano la partecipazione alla vita pubblica, i principi egualitari, e alla fin fine l’elogio della democrazia rappresentativa, l'unica forma di governo in grado di garantire i diritti naturali e inalienabili della persona umana e del popolo sovrano. Come ha sottolineato il noto filosofo italiano Norberto Bobbio, “la democrazia è quel sistema politico che permette il maggiore avvicinamento tra le esigenze della morale e quelle della politica”. E così l’esperienza traumatica non ha avuto conseguenze poco reparabili.
La presenza francese in Italia influenzò la cultura politica nonché i modelli istituzionali e la sua statualità. Influenzerà anche la scelta storica e concettuale del conte Camillo Benso di Cavour – la sua scelta del liberalismo, delle libertà fondamentali, interessi e bene individuali, responsabilità della persona. Già dal 1870, la cultura politica italiana si impegnò per rinvenire altrove le origini del Risorgimento, e questo modo di ragionare e agire troverà conclusione nei termini di uno Stato unitario liberale.
Senza nemmeno vantarsi di una lunga tradizione della democrazia rappresentativa, un certo numero di paesi europei tra cui l'Italia, può godersi la libertà della persona umana, intesa come la responsabilità individuale nonché l'esperienza liberale e di business di successo? Affrontiamo questo problema con l’approccio socio-culturale e magari anche etnopsicologico e in chiave di studi imagologici, prendendo in considerazione gli aspetti culturali, psicologici, abitudini e usanze - tutto ciò che favorisce a formare l’insieme dei valori accettato dalla maggioranza dei cittadini.
Le repubbliche marinare e i Comuni, fondate o risorse a ben poca distanza dagli oceani di tutto il mondo, erano centri di idee, informazioni, scambio di ogni genere, di conoscenza, lavoro, produzione, istruzione, affari, potettero ereditare anche il patrimonio dell'antica filosofia e logica greca e romana, la cultura politica e i modelli istituzionali. Le città marittime del Mediterraneo giocavano un ruolo di crocevia del mondo, di ponte di informazione tra l'Occidente e l'Oriente – e prosperarono grazie al lavoro sistematico e alla gestione ragionevole e pragmatica e alle autorità elettive. Con l'andar del tempo, una buona, per non dire la maggior parte delle élite urbane ha ereditato l'antica cultura politica e il diritto romano, la tradizione dei Comuni che fiorirono grazie al lavoro sodo quotidiano – nonché al senso comune dei cittadini. Anche quest’oggi va menzionata la città di Mantova il cui successo è descritto su “la Stampa” del 29.11.2016 da Nicolò Zancan, che “è diventata la città dove si vive comodi, la vita è semplice e servizi funzionano. Era storicamente seconda dietro a Trento, fino a quando è successo qualcosa, i cui effetti sono visibili in tre dati che raccontano cosa potrebbe essere il futuro: tra cui +50% di visite nei musei, +28% per cento di pernottamenti negli hotel, +1,1 per cento nel rapporto fra natalità e mortalità delle imprese (+0,8 in Lombardia, +0,3 in Italia). E per di più: qualità della vita migliora, criminalità è praticamente abbattuta).



La Russia, al contrario, si trovava sempre lontano dalla filosofia europea, logica, diritto romano, l'antica cultura politica. Le città - lasciamo tra parentesi l'udel – удел – del principe, knyaz e trattarle nel senso europeo del termine – non hanno mai avuto luogo nel Medio Evo russo fino ai tempi moderni. Tutto ciò è dovuto a un insieme dei fattori. La distanza dai mari e oceani caldi era più che enorme, l’isolamento disteso nei secoli dai successi, idee, dalle innovazioni europei scientifiche, patrimonio filosofico, diritto, dalle teorie e le pratiche delle autorità, non passarono senza lasciare le impronte profonde anche perché il patrimonio scientifico, filosofico, culturale, innovazioni dell'Occidente e dell’Oriente, non erano disponibili.
Knyaz, duce, vojd, il sovrano della “votcina”- “вотчина” – fu dotato dal potere illimitato. La Rus 'di Kiev, e, in termini ancora più marcati, Vladimir-Suzdal (la base del futuro Stato di Mosca) fu stabile e solido solo se guidato da un governatore molto forte, anzi, terribile – un fenomeno che è la chiave per la comprensione della storia politica e socio-culturale russa perché tutto ciò non passò senza lasciare delle impronte emblematiche. E qui deve essere preso in considerazione un insieme dei fattori: il clima del Nord dalle temperature molto basse, anche polari, inverno lungo e freddo, venti e tempeste dell'Artico imprevedibili anche d'estate, mancanza di barriere naturali contro i venti artici che soffiavano dall’Oceano gelido; terre povere, scarse, territori enormi dai confini incerti e poco consolidati (da qui - un bel detto di pochi giorni fatto per scherzo: "I confini della Russia non finiscono da nessuna parte"). Vanno ancora aggiunti: boschi impenetrabili, paludi, acquitrini, strade difficilmente raggiungibili, spazi sconfinati, fragilità delle frontiere, mancanza delle città, almeno nel senso europeo, lontananza dall'Europa, dall'Estremo Oriente – e l'abitudine della popolazione di vivere isolati. Per l’aggiunta Knyaz della Rus' copia i tratti dispotici orientali del Bisanzio. È qui che dobbiamo per forza ricordare il determinismo geografico di Charles Montesquieu.
300 anni del giogo tartaro hanno rafforzato umiltà e pazienza senza fine diventata parte della matrice dell'identità russa, nonché riverenza e servilismo rispetto ai tiranni e funzionari anche illegittimi – e tutto ciò provocò 300 anni ancora di schiavitù per più della metà della popolazione. La servitù della gleba ha portato la popolazione all'apatia, indifferentismo, sottomissione, diffidenza, a volte anche odio nei confronti di un altro, alla mancanza di ogni responsabilità anche nei confronti di sé stessi, paure e servilismo: perché la schiavitù corrompe il proprietario di schiavi, ma altrettanto – e anche in misura maggiore – corrompe il servo. Più tardi tutto ciò ha provocato la diffidenza e sfiducia reciproca, ostilità, paura reciproca da parte delle autorità dello Stato e la popolazione.
Ma un vero e proprio “patrimonio” (tra virgolette), l'eredità più importante del giogo tartaro sono alcuni meccanismi del modello nomade asiatico che definiamo «вождество», il termine che proviene dalle definizioni “duce nomade”, “despota orientale”, chiefdom. Questo termine – вождество – appartiene al noto analista Dmitry Oreshkin. Вождество dei tartari, chiefdom nomade è una forma di Stato, governato da "una persona carismatica, vojd, mojo (in americano di oggi), dotato dal carisma, dal potere oltre ogni limite, che riunisce la popolazione nomade per saccheggiare i vicini”. Questi meccanismi venivano a poco a poco riprodotti dai sovrani russi nel modello istituzionale del potere e nel modo di governare. Precisiamo così: вождество, chiefdom è un modello istituzionale di potere adatto e progettato perché il sovrano possa controllare la popolazione assoggettata e regnare nei vasti spazi con i confini vacillanti (non naturali), sia in grado di combattere e difendersi dai vicini nemici nomadi ostili e feroci, di far aumentare i territori governati, nonché mantenere la popolazione in obbedienza. Col passar del tempo i meccanismi di вождество vengono manifestati durante il regno di Ivan il Terribile, il regno dei Favoriti del Settecento, nel bolscevismo, nel regime di Stalin.
A questo punto possiamo definire alcune tradizioni che hanno dato impulso a una certa cultura politica radicatasi nella coscienza della maggioranza della popolazione tranne élite e persone istruite: rispetto, anzi, riverenza, devozione, ammirazione – e timore della maggioranza della popolazione nei confronti del sovrano, dello Stato-potere, dello zar (anche terribile e illegittimo); il consenso tacito a condizione che sia forte e inesorabile riguardo i nemici. O, meglio dire, dello Stato-potere-sovrano giacché questi fenomeni vanno benissimo d’accordo fino ad essere uniti, identificati, diventati una specie di una miscela fusa, di lega. Questo condizionò anche la sacralizzazione del governatore politico – la tendenza diventata più sentita dopo che la Chiesa ortodossa, rafforzata combattendo con il paganesimo, aveva sostenuto il potere dello zar. Così nella memoria storica e culturale si è creato un modello istituzionale dei rapporti tra le autorità e la popolazione: gli interessi dello Stato-potere rappresentati dal governatore devono essere considerati primari e valgono di più rispetto a quelli della persona umana. La vita basata sui diritti fondamentali e precetti divini, rispetto della persona umana, privacy, dignità dell’uomo e, quindi, rispetto di sé stessi non valevano quasi niente, come pure ambizione, individualismo, iniziativa personale che venivano sempre condannati dalla maggioranza poco istruita – anzi, ci si manifestava il disprezzo verso uno che lavora sodo. La parte crescente di cittadini (non intendiamo le élite intellettuali istruite) dimostra oggi il patriottismo falso e arrogante inteso come la strada unica del popolo scelto da Dio – per sopravvivere disastri – e la pazienza senza fine e fondoschiena e senza nemmeno pensare a contrastare al sovrano. Aggiungiamo qui il mancato desiderio di libertà, la sua identificazione nella coscienza della maggioranza con anarchia, insicurezza, permissività, sospetto e la diffidenza reciproci tra la popolazione e lo Stato-potere.
L’esperto francese Bruno Groppo spiega gli atteggiamenti specifici della buona parte della popolazione verso la libertà affrontando il problema dell"esperienza traumatica". La storia del trauma in una data civiltà ci aiuta a concepire le esperienze traumatiche tenendo conto di altri fattori (natura, clima, ecc), che ne comprendono l’identità. Se nella storia della società accadono traumi, soprattutto multipli (invasioni, gioghi, schiavitù, dittature, genocidio), che provocano sofferenze e dolore – l'esperienza traumatica crea un particolare sistema di modelli e simboli, immagini di difesa, chiaro e accettato dalla maggioranza della società. Questi segni e immagini vengono stigmatizzati – appare "l'inconscio collettivo” secondo l'analista Alexander Etkind. Le esperienze traumatiche creano geni dominanti – Gestalt, modelli socio-culturali. È così che prende strada il risentimento (ressentiment) – rammarico, invidia, odio, rabbia, aggressione, disprezzo verso “un avversario”, convinzione di essere “unici”, di aver preso la strada giusta e unica per arrivare alla grandezza della potenza. Nascono il desiderio di isolarsi dal mondo esterno nonché i meccanismi di difesa con cui il soggetto affronta i conflitti stressanti esprimendo aggressività rispetto a “un avversario, ostile”, “responsabile delle nostre sofferenze” che vuole “soggiogarci”, “metterci in ginocchia”. Le ostilità della “maggioranza ubbidiente aggressiva” come l’ha definita il noto scienziato Yuri Afanasiev, vengono nascosti dietro l’acquiescenza: la popolazione non ha altri mezzi di esprimere propri desideri.
Le esperienze stressanti colpiscono il presente e il futuro del paese avvolto nel passato traumatico. Le sue metafore, la retorica tradizionale entrano anche quest’oggi nel discorso socio-culturale e politico, creano certi miti e idealizzazioni di personaggi politici, modelli istituzionali. È importante che gli atteggiamenti delle élite intellettuali nonché della gente di strada non impediscano di valutare attualità, non ci impediscano di capirci.


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